25 aprile. Festa della liberazione. Liberazione dal giogo nazi-fasciata. Liberazione dalla guerra, tremenda, orribile. I morti sono tutti uguali, è la parte, giusta o sbagliata, dove si muore che fa la differenza. Come di consueto pubblico un mio racconto riguardante quei mesi di lotta estrema, di sacrificio, di angoscia. Buon 25 aprile a tutti!
Mi chiamo Gilda Rosetti, classe 1919, sposata dal 1938 con Carlo Pantaleone, classe 1910, e mi è sempre piaciuto avere delle bombette in casa. Vi stupirà che una massaia armeggi con l’esplosivo ma io nel ’44 avevo quattro figli piccoli e mio marito era quasi sempre sui colli, con la brigata, passavano anche due o tre mesi che non lo vedevo e quelle bombette mi facevano stare più sicura. Dico meglio: non che fossi più sicura io ma per i miei figlioli sì, ero più sicura. Me le aveva portate il Gianni, pallido e secco come un insetto ma con un cuore da leone, che mio marito non voleva. Cosa tieni in casa quella roba li, fa più danni che altro! E io avevo pianto non per lo schiaffone che mi aveva mollato dopo quelle parole, avevo pianto per la rabbia, lo avevo odiato perché non mi lasciava proteggere le mie creature. E allora il Gianni, che aveva una cotta per me dalle elementari me ne aveva portate tre, una mattina colorata di settembre. Le aveva infilate nella cintura di cuoio che era di suo padre, quella con la fibbia arrugginita; in verità da quella cintura lui ne aveva fatte due, una per sé e una per il topo, un ragazzino di Bologna che era li chissà perché, a combattere i neri, perché suo padre macellaio pesava come un bue ed era morto di mal di pancia prima che questa pazzia della guerra cominciasse, fortunato lui.
Quella mattina di settembre era sgattaiolato in casa, il Gianni, prima che sorgesse il sole, che quando c’è la guerra i colori li puoi vedere solo di notte, le aveva poggiate tutte e tre sul tavolo del tinello ma una gamba era rotta e il piano di legno stava un po’ inclinato che a momenti vanno in terra tutte e tre, le bombe dico. Facile, tiri qui e lanci ma lancia lontano che queste esplodono forte, sono americane mica nostre. Il Gianni era sempre stato chiaro, due cose mi aveva spiegato nella vita, e le avevo capite, come si fa la b in bella grafia corsiva e come si usa una bomba a mano. La prima e ultima volta che ho tradito Carlo è stata quella ma un bacio il Gianni se lo era meritato! Perché io non ne volevo più perdere di bambini che uno, ‘sti neri vigliacchi, già me lo avevano portato via che era ancora nella pancia a suon di botte e pedate nel sedere e gradini con la faccia… Non le avevo ancora le mie tre grazie, così le chiamavo, se no li avrei fatti correre quei bastardi. Le avevo riposte nella credenza in cucina, nell’anta in basso a sinistra, che era piena di scatole ormai vuote, infilate una sull’altra dentro ad una confezione di cacao Bensdorp, rossa fiammante! Le ho tenute li dentro per un po’ di mesi poi un bel giorno di maggio sento bussare alla porta ed era Carlo che mi dice di prendere i bambini, che la guerra è finita e per strada ci sono caramelle e sorrisi. Vivo ancora nella stessa casa, con le cambiali l’abbiamo un po’ ristrutturata e sotto la cucina, dove una volta ci stava la Gina che era a servizio dal barone, Carlo ci ha fatto la sua officina da ebanista. Lì dentro ora è tutto polvere e ragnatele ma se avete la costanza di spostare assi e vecchi carretti e bacinelle e damigiane vuote, in fondo a sinistra troverete un tombino stretto e rotondo con la scritta ACQVA. Beh dentro ci troverete le mie tre grazie, sonnolente ma pronte perché la guerra non te la aspetti mai. Dovrò ricordarmi di dirlo ai miei figli, prima di andare da Carlo.
…Commovente !