Discorso sopra una foto ” basura “

L’espressione umana ha tanti volti. Da quando, nel maggio del 1816, Joseph Niépce riuscì a produrre uno dei primi negativi, ad oggi, la fotografia ha percorso molta strada, non solo nella tecnica precipua, soprattutto nella produzione di soggetti sempre nuovi. La venuta al mondo di una tecnica straordinaria, capace di riprodurre fedelmente un’immagine istantanea, fissandola nei secoli a venire, ha cambiato l’universo della percezione dell’effimera vita umana: in meglio o in peggio non sta a me giudicare. Io so per certo però, che se la fotografia non avesse trasportato oltre l’idea di immagine, oggi non si farebbero lunghe code, fuori dei maggiori musei del mondo, per ammirare i capolavori impressionisti. Modigliani non avrebbe insistito tanto su quei colli diafani e distesi, su quegli occhi viralmente vacui e forse, Soutine non avrebbe ammorbato di olezzo putrescente la scala della sua abitazione. Il dilemma profondo investe la realtà: che cos’è reale? I ” mostri ” di cui si serve Joel Peter Witkin in quei teatri del grottesco e dell’assurdo, che solo lui sa comporre, riescono a raggiungere vette di estaticità che rasentano il sacro ( penso, ad esempio, a ” Gods of Earth and Heaven “, uno dei capolavori, capace di scardinare, con il perentorio puntiglio della visione infernale, secoli di storia dell’arte ), sanno essere reali ed artistici all’unisono, si accordano come un’orchestra navigata, con la visione del mondo che l’uomo contemporaneo dovrebbe avere. Eppure altro non sono che dei sali d’argento impressionati su di una carta fotosensibile, altro non sono che un’immagine, spiacevole o meno, razionalizzata o delirante, che può pararsi di fronte al nostro sguardo, spesso disattento, quasi sempre troppo rapidamente impressionabile. Il quieto vivere, il settario sentimento bigotto che offusca i nostri sguardi, volentieri ci fa prendere decisioni, riguardo al bello ed al brutto, troppo all’impronta: aver paura di un’immagine spaventosa è una reazione istintiva e giusta ma, bene sappiamo, che l’essere umano non è più, da molti millenni, puro istinto. Ahimè non siamo più – beata prole, a cui non sugge / pallida cura il petto – per dirla con Leopardi ovvero abbiamo coscienza di noi stessi e del nostro ferale destino. Questa coscienza, sviluppatasi in millenni di evoluzione, dovrebbe quantomeno farci comprendere che, dietro ad un’immagine, si possono celare molteplici significati e se tali significati ci disturbano così profondamente da non riuscire a trarne un insegnamento, che non sia esiziale per noi stessi e il nostro animo, allora è meglio non curarsene ma guardare e passare.

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