In un’epoca in cui i lettori veri si son quasi dileguati, lasciando spazio, quando va bene, a persone che spizzicano libri come fossero un pinzimonio di boria da sfoggiare, raccolto in una boutade mirabolante e spesso senza appigli, all’apericena del sabato, mi ha molto colpito la decisione dell’Accademia svedese, di assegnare l’annuale premio Nobel per la letteratura ad un ” menestrello “. La definizione non viene certo da me, l’ho accolta a malincuore questa mattina dalle pagine dei quotidiani nazionali; ora, sarà che nella nostra lingua i nomi che han desinenza in -ello- non son quasi mai forieri di buone speranze ( vedi l’uomo/volatile che, raggiunta una certa età, non trova il bisogno di caricarsi di schiaccianti responsabilità: il fringuello; vedi lo zimbello, altro volatile asservito all’arte venatoria, di rimando, uomo esposto al giuoco faceto di chi è gerarchicamente sopra di lui; vedi il santarello, vezzeggiativo d’una qualità in vero sconosciuta all’essere umano…), sarà che da onirico medievista ho sempre visto il ” menestrello ” come una figura di passaggio nella città prerinascimentale, una sorta di Vernacoliere dalla risata giustamente facile, sarà, sarà ma io non me lo spiego proprio questo premio, senza nulla togliere agli estimatori esterofili che per Bob Dylan impazziscono ancora oggi. Mi è capitato però di pensare come avrei reagito alla vittoria del Nobel da parte di un altro cantautore a cui sono molto legato: Fabrizio de André. Ci ho pensato a lungo e sono giunto alla conclusione che sarei stato comunque in disaccordo. Sì, comunque, come fui in disaccordo all’epoca dell’assegnazione del premio ad un illustre italiano, anch’egli apostrofato d’un epiteto simile: il giullare Fo, purtroppo recentemente morto, che venne scelto, forse, al posto del semi sconosciuto Luzi, in aria di Nobel da una ventina d’anni, all’epoca ( la poesia in testa al pezzo è proprio l’ultima composta dal poeta di Castello ). Perché sono convinto che la letteratura e la poesia abbiano il compito fondante di esaltare – la grazia del linguaggio in cui si trasmette il movimento stesso dell’essere – per citare Saint-John Perse. E questa grazia di linguaggio, per me, non necessita né di accordi né di chitarre. La risposta quindi non soffia nel vento ma è radicata profondamente nell’animo umano ed è quindi rimesso all’individuo lo sforzo necessario alla sua ricerca comunque vana. Mi trovo quindi qui a pormi, in relazione al nobel di Dylan, le medesime domande che un grande pensatore si poneva, quasi sessant’anni fa, proprio il giorno del ritiro del suo Nobel: Albert Camus: perché a me? Perché io, in un mondo in cui decine di scrittori e poeti sono ridotti al silenzio? Il coronamento della carriera di un cantante non si esplicita in un premio Nobel bensì negli ultra remunerativi stadi colmi di fans che a memoria cantano felici i sui ritornelli. Spero che il cospicuo premio in denaro che affianca il Nobel, il buon vecchio Dylan ( che rubò il suo cognome d’arte all’eccentrico Thomas, quello di E la morte non avrà più dominio, forse il solo poeta ad essere riuscito a riempire la piazze ) decida di devolverlo a qualche stanco, disilluso poeta, che possa così godere anch’egli della sola ed unica ricchezza che pare conti oggi: quella pecuniaria!