Fundaciò Antoni Tàpies

A Barcellona in Aragò 255, a due passi da Passeig de Gràcia, da circa vent’anni sta ad accogliervi ( e vi consiglio caldamente di farle una visita ) la Fondazione Antoni Tàpies che, per chi già non lo conoscesse è, insieme al nostro amatissimo Burri, il grande guru dell’arte fatta con la materia, quell’arte che da sempre mi affascina per via della sua durezza e povertà, spesso più povera dell’arte Povera stessa. La Fondazione è padrona di una considerevole collezione di capolavori che spaziano dai primi anni ancora figurativi per giungere ad opere recentissime. La cosa bella è che l’esposizione è in continuo mutamento, una rivoluzione meravigliosa che consente allo spettatore di godere d’uno spettacolo sempre nuovo, ad ogni nuova visita. Intorno all’esposizione, quasi fosse cornice secentesca di maestri bergamaschi ad abbracciare un taglio rosso di Fontana, è il palazzo costruito tra il 1881 e l’85 da Lluis Domènech i Montaner, per la casa editrice Montaner, chiarissimo esempio del primo modernismo articolato e rigoroso in ogni sua linea. All’interno è anche visitabile, ma solo su appuntamento, l’immensa biblioteca che era della casa editrice e che raccoglie anche la biblioteca personale dell’artista catalano. Un’ultima nota riguarda il pavimento della fondazione, si tratta di un parquet industriale tanto affascinante quanto ipnotizzante, della serie: guardate bene dove mettete i piedi.

Una leggenda e un artista

Durante il rigido inverno del 1782, sul far della sera, mentre la neve cadeva copiosa a ricoprire i fitti boschi della valle d’Ayas, un montanaro di Champoluc di nome  Matteo Brunod detto   “Lo Rey“ ( il re ), per via della sua possente forza e stazza fisica, si mise in cammino per raggiungere il villaggio di Saint-Jaques, marciando faticosamente per via dell’ abbondante nevicata che aveva reso impraticabili i sentieri. Improvvisamente, da dietro  un albero sbucò, sbarrandogli la strada, un gigantesco orso bruno. L’animale, affamato e inferocito dall’inverno, giacché le bestie non son mai cattive per volere loro, sollevatosi sulle due zampe posteriori, forti come querce secolari, si scagliò con furia addosso al povero montanaro, sferrando un morso micidiale.  Lo Rey, senza lasciarsi intimorire dall’attacco dell’animale, con un fulmineo movimento del collo schivò il suo attacco e afferrò con le sue mani vigorose il collo della belva incominciando a stringere, con forza inimmaginabile, per soffocarla. Dopo alcuni minuti di lotta feroce per la sopravvivenza, nella foresta ripiombò il profondo silenzio portato con sé dalla neve. Brunod aveva vinto la battaglia.

 

Una delle tante e belle “contes“ valdostane, a far da cornice alle intriganti realizzazioni di un artista del legno ( o sarto di legni esausti, come lui stesso ama definirsi ) tra i più innovativi della scena valdostana: il suo nome è Roberto “Bobo” Pernettaz. Nelle foto alcuni esempi dei sapienti intarsi lignei dell’artista che, con giochi d’ombra e di profondità, sembrano balzare fuori dai loro supporti, talvolta legnosi, talaltra ferrosi ed arrugginiti. Il senso profondo di tutte queste opere è, credo, insito proprio nella ruggine ed in quello che essa rappresenta di più profondo, il suo senso di vecchiezza e disuso. L’opera di Bobo è salvifica perché in grado di dare nuova e più nobile vita a materiali che altrimenti sarebbero da stufa o discarica. Intendendola in senso ancora più moderno, l’arte di questo sarto così speciale, può essere definita, con un termine oggi tanto di moda: Bio. Le opere fotografate sono alcune di quelle che, giusto sabato scorso, erano in esposizione, al banco dello scultore, durante la quarantatreesima Foire d’été ( alla quale è dedicato il post precedente questo ).

Foire d’été

Si dovrebbe essere dei bugiardi, sapendo bene a cosa si vada in contro, per dire che la quarantatreesima fiera estiva di Sant’Orso sia stata, per dirla con de André, una ” tonnara di passanti “, complice forse, più della crisi, il tempo troppo incerto, per tutta questa brevissima estate  ( saggezza popolare recita che il tempo non volle mai sposarsi, per poter far sempre ciò che desidera ), la calca non c’è stata e credo sia stato un bene. Il fascino della manifestazione, più turistica in verità che tradizionale, non è certo quello della sorella maggiore Fiera, con F maiuscola, invernale ma devo dire che, grazie anche al sempre più alto livello di preparazione degli espositori, questa fierina mi è piaciuta. Vedremo che succederà l’anno venturo, forse l’amministrazione riuscirà a dismettere, una volta per sempre, quell’orrendo capannone fieristico che, per la metà dell’anno, stupra la neoclassica e così bella piazza Chanoux.

Intorno ad un quadro di Giulio Schiavon

Un miracolo. Solo questo, un miracolo. Il colore si posa sul legno grezzo, trattato a gesso, delinea un volto, una danza, un gesto, una fanciulla attraente, un giovane baldo, la locanda, la serata perfetta… e se annusi come si deve c’è anche l’odore del vino. Divino.

( Piccola digressione: il vino modifica le sue doti sensoriali grazie, potremmo dire, a delle particolari affinità elettive ovvero, formulando un’equazione direttamente proporzionale, più è buona e divertente la compagnia, migliore saranno il profumo ed il gusto del vino. )

Per molti l’odore del vino è una culla; il gusto, una stanza dove sostare, un pensatoio dove trovare ispirazione, un osservatorio da dove controllare il moto del mondo,  un metro per calcolarne le distanze, una pellicola dove catturarne delle istantanee da rielaborare per tentare di capire.

I colori di questo ballo, così sfumati ed allegri, sanno di barbera d’un tempo, quella dalla puntina acida e il fondo nella bordolese, quella di quando saltare l’ultimo filtraggio non era una moda per milanesi né un vezzo da enologi ma il semplice modo di risparmiare vino per berne di più, perché il vino è fatica tanto quanto gioia e così dovrebbe essere sempre.

Eiapopeia, ninna nanna di carta

Chi conosce l’opera di Klee lo sa, la realtà nei suoi quadri è rarefatta, filtrata come da un colino a maglie strettissime che lascia colare solo alcune visioni, sgocciolare solo segno e colore. La realtà nei quadri di Klee è rarefatta e lo stesso si può dire dei quadri dell’artista bernese esposti all’infausta ninna nanna regionale del museo archeologico. Il nome sul cartellone pubblicitario però risulta chiarissimo: Paul Klee, peccato che manchi una fondamentale precisazione ovvero l’opera su carta. Forse può essere che noi italiani siamo un poco fissati con le differenze tra carta e tela, olio e guache, cartapesta e marmo ma, e il mercato mi è testimone, se l’opera è su carta non voglio dire che valga di meno ( anche se è proprio così ) ma sicuramente è meno stimata. Ora se su un cartello di cinque metri per tre scrivi PAUL KLEE e poi in mostra trovi schizzi, bozze, bozzetti neanche di primissima scelta beh, lo spettatore pagante, che ama l’artista e magari ha fatto dei chilometri sperando di potersi immergere in capolavori assoluti del cromatismo più evoluto come la scena di lotta dall’opera comico-fantastica ” Il marinaio ” o Armonia di rettangoli in rosso, giallo, blu, bianco e nero o ancora Ad Parnassum ecc. ecc. come dicevo, lo spettatore pagante potrebbe anche infastidirsi. Io personalmente, passatemi l’eufemismo, m’incazzerei come una bestia. E pensare che di opere su carta il musicista pittore ne ha prodotte molte, alcune di eccezionale qualità ( penso a Davanti alle porte di Kairuan, Case rosse e gialle a Tunisi, Giardino di rose ecc. )… e che dire della serie di stupende, impareggiabili, oniriche acqueforti su zinco dei primi anni del ‘900, quando l’artista ancora ondivagava tra musica e pittura indeciso, completamente assenti in mostra? Meglio non dire nulla. Comunque, mi si dirà che non ho saputo intendere la ricerca effettuata dai curatori per portare a galla un lato poco conosciuto dell’artista ma fatto sta, ed è, che gira che ti rigira ad Aosta non si riesce mai a portare a galla qualcosa che porti gente e che, soprattutto, la gente, la lasci soddisfatta.

Nuova era

Eccola. Tanto attesa. Tanto agognata. L’antesignana delle reflex. La prima, in effetti. Otturatore a tendine di stoffa perfetto, anno 1959: qualità costruttiva nipponica. In un tempo dove tutto è digitale la nuova era è innegabilmente figlia del passato. Verrebbe da dire: l’analogico si imporrà, necessariamente. Ossimoro, la foto di sopra è digitale, scatto costruito in lightbox casalinga. Ma poco importa, la grazia espressa dalle forme della Nikon F Photomic è assoluta, dannunziana.Espressione sicura di innovazione, ricerca, design e stile, va ad arricchire di un fondamentale tassello l’attrezzatura necessaria a scrivere con la luce, seriamente. Evviva!

Sem encar ici

Siamo ancora qui. Nonostante tutto, nonostante i funerali degli amici, gli schiaffi presi e dati, le delusioni, i successi, nonostante le lotte fatte, i rimpianti ed i rimorsi, nonostante i sorrisi, le grida, i piedi in testa, i mordersi la lingua, gli sfottò, nonostante la vita…

Siamo ancora qui. E resistiamo. Il messaggio trasmesso dalla musica dei Lou Dalfin è totale e totalizzante, tradizionale ed attualissimo, cantato in una lingua tanto complessa quanto ricca di velature e traslucenze qual è l’occitano.

Siamo ancora qui e abbiamo intenzione di restarci il più a lungo possibile, godendo di tutto, lottando per ciò che ci sembra giusto. Amen.