La Cystoseira

La Cystoseira

Ho raccolto per un buon momento la Cystoseira, spiaggiata come un pensiero che si rifiuta di appartenere al giorno. Era lì, ancora umida, ancora attaccata con ostinazione al suo piccolo sasso, come chi non sa rassegnarsi all’abbandono. L’ho tenuta tra le mani, come si trattengono le cose che si amano senza capirle fino in fondo. Poi l’ho ributtata in mare, con un gesto che credevo generoso, forse persino salvifico. Ma era un gesto inutile. Non per la sua sorte, ma per il mio bisogno di attribuirgli un senso.

La natura, oggi, sembrava tacere. Una calma irreale, una luce che scivolava sul bagnasciuga come se il mondo avesse trovato una tregua. Luglio inoltrato, e la Catalogna pareva respirare senza affanno. Ma era solo apparenza: la natura non tace mai. Ci parla, sottovoce, nel fruscio dell’aria, nel sale incrostato sulla pelle, nelle cose che restano e in quelle che si disfano in silenzio.

Mi diceva che no, non è vero che tutto sia quiete. Mi ricordava che la bellezza, questa bellezza che ci incanta e ci culla, è figlia del disordine. Che ogni forma è un compromesso temporaneo, un equilibrio strappato al caos. La Cystoseira, in fondo, non era altro che un tentacolo del disordine strappato alla sua danza. Un frammento della grande entropia che ogni tanto si lascia toccare, come un animale marino che finge di dormire.

La natura è caos, sì. Ma è caos sublimato. Non un disordine cieco, non una furia priva di scopo, bensì un’intelligenza che si nasconde nella confusione. Una grammatica che non si lascia imparare, ma solo ascoltare. E noi, animali in cerca di significato, inciampiamo nei suoi segni come ciechi in una biblioteca.

Gettare quella Cystoseira in mare è stato come scrivere un verso sull’acqua: subito svanito, ma non per questo vano. Ogni gesto, se ascoltato, racconta qualcosa. Ogni gesto è una sillaba del linguaggio che ci lega al mondo. E forse era proprio quello che volevo: sentirmi parte, almeno per un istante, di quel disordine organizzato che ci contiene, che ci sopravvive.

Non c’è morale, né redenzione. Solo un filo sottile che unisce il gesto al pensiero, e il pensiero al tempo. Oggi era il mare a parlare. Domani sarà un sasso, o una foglia, o il silenzio di chi ci cammina accanto. Ogni cosa vibra, anche quando tace. Ogni cosa si muove, anche se pare immobile.

E allora sì, la Cystoseira è tornata nel suo elemento. Forse non vivrà. Forse sì. Ma in quel momento, io ho visto il caos sorridermi. E quel sorriso bastava.

L’Importanza della Memoria nella Predicazione Cattolica dell’Epoca Pre-Stampa

Nel vasto ed eloquente panorama della Chiesa medievale, la memoria emerge come una virtù fondamentale, custode e trasmettitore della Tradizione Sacra, soprattutto per i predicatori che, privi degli strumenti della stampa, si trovano a svolgere un ruolo cardine nell’insegnamento e nella diffusione della fede. La memoria, nel contesto della predicazione, non è solo un’attività mentale di ritenzione, ma diventa l’ossatura della trasmissione della Parola di Dio, il vettore attraverso il quale la verità eterna raggiunge le anime degli ascoltatori.

“Memoria est arca,” scriveva Sant’Agostino, “in qua quicquid retrahitur, nescit obliuionis.” La memoria è infatti un’ “arca”, un contenitore che non solo conserva, ma custodisce i tesori più preziosi. Per i predicatori medievali, il “tesoro” da conservare era la Sacra Scrittura, i dogmi della fede, le esortazioni morali, e la ricca tradizione dei Padri della Chiesa, che si tramandavano per via orale, senza il soccorso di testi a stampa. L’attività di predicazione, dunque, richiedeva una memoria viva, acuta, capace di rievocare e di interpretare i sacri testi in modo che la Parola di Dio potesse risuonare con freschezza e forza nelle menti e nei cuori dei fedeli.

La figura del predicatore medievale, come ben sottolinea Jean Leclercq, non è quella di un semplice oratore, ma di un “minister” della Parola, che non può permettersi il lusso di affidarsi alla scrittura come mezzo di supporto, ma deve basarsi unicamente sull’arte del ricordare e dell’evocare. “Non est in scribendo quicquam pretiosum,” scriveva Sant’Isidoro di Siviglia, “cum non sit in memoria.” In tal senso, la memoria non è solo una facoltà intellettiva, ma un atto spirituale e liturgico. Essa è l’alimento del predicatore, il cui scopo primario è quello di formare un legame di trasmissione intergenerazionale, un ponte fra il presente e il passato, fra il “hic et nunc” della predicazione e l’eterno “Verbum Dei.”

La centralità della memoria nella predicazione medievale trova, inoltre, un riflesso nell’interpretazione della Scrittura. La pratica dell’expositio o della predica biblica, che dominava nelle università e nei monasteri, si sviluppava principalmente grazie alla capacità del predicatore di rievocare e commentare passaggi sacri senza il supporto di testi scritti. In questo contesto, la memoria diventava quasi una “virtù teologica,” come sottolineato da Riccardo di San Vittore, il quale affermava che “memoria est instrumentum veritatis.” La memoria, in tal modo, diveniva strumento di verità divina, un mezzo attraverso il quale il predicatore attingeva alla sapienza universale, custodita nei libri sacri e nelle tradizioni patristiche, e la rendeva fruibile per i fedeli.

Ma non era solo l’esercizio intellettuale che richiedeva un’accurata conservazione della memoria: essa assumeva anche un’importanza morale e spirituale. La memoria della Sacra Scrittura e dei santi esempi di vita cristiana era il fondamento della vita devota del predicatore stesso. Come scrisse un anonimo monaco cisterciense: “Quid est vera religio, nisi memoria dei in perpetuum?” La “vera religione” non si riduceva alla sola pratica liturgica, ma consisteva anche nel continuo esercizio della memoria di Dio, che guidava ogni atto di vita cristiana e, in particolare, ogni atto di predicazione.

Inoltre, non va dimenticato che, in un’epoca in cui il libro, pur sacro e venerato, era ancora un bene raro e costoso, la memoria rappresentava anche l’unica “banca” di informazioni a disposizione del predicatore. Le “tropologie” e le “allegorie” bibliche, che costituivano il cuore delle prediche medievali, venivano fatte risuonare dalla memoria del predicatore come simboli viventi, e non come semplici dottrine. Il predicatore medievale non cercava solo di insegnare la dottrina, ma di alimentare e risvegliare l’immaginario cristiano, di formare un “popolo del ricordo,” come scrisse Tommaso d’Aquino nella Summa Theologica: “Memoria est visus animi, per quam in aeternum visibilia mentis contemplamur.” La memoria è il “volto” dell’anima, attraverso il quale contempliamo eternamente le realtà invisibili.

In conclusione, la memoria non fu solo un mero strumento di conoscenza intellettuale, ma un vero e proprio “attributo teologico” che elevava la predicazione medievale a una forma di arte sacra. Il predicatore, armato della sua memoria, era chiamato a rendere viva e dinamica la Parola di Dio, affinché essa potesse penetrare nei cuori dei fedeli, ed essere portatrice di trasformazione spirituale. In un mondo in cui la scrittura era riservata a pochi, la memoria rappresentava l’unico canale per tramandare la fede, per risvegliare l’anima e, come scriveva Agostino, “per non dimenticare che il cielo è vicino e la verità eterna è sempre in noi.”

Quante storie. Il potere della narrazione.

La narrazione ha avuto un ruolo fondamentale nel plasmare non solo l’evoluzione culturale dell’Homo sapiens, ma anche la nostra biologia sociale. Diversi studi scientifici suggeriscono che la capacità di raccontare storie, di comunicare attraverso narrazioni, ha contribuito a consolidare legami sociali, a trasmettere conoscenze e a favorire la cooperazione tra individui all’interno di gruppi complessi. Le radici della narrazione si intrecciano con l’evoluzione del linguaggio, dell’intelligenza sociale e delle strutture comunitarie, influenzando la nostra psicologia e la nostra capacità di adattamento.

La narrazione come strumento di coesione sociale

Una delle teorie più affermate è quella secondo cui la narrazione sia emersa come un mezzo di coesione sociale, indispensabile per la sopravvivenza dei gruppi umani. Lo psicologo Robin Dunbar, famoso per la sua teoria sul numero di Dunbar (la stima che ogni individuo possa mantenere legami sociali stabili con un massimo di 150 persone), ha suggerito che il linguaggio verbale, e in particolare la narrazione, fosse un potente strumento per consolidare i legami all’interno di gruppi sempre più numerosi. In un ambiente di cacciatori-raccoglitori, dove i gruppi erano relativamente piccoli, la narrazione serviva a mantenere il controllo sociale, a trasmettere norme morali, esperienze passate, valori condivisi e a risolvere conflitti interpersonali senza ricorrere alla violenza. Il linguaggio, quindi, non solo ha permesso di comunicare informazioni pratiche, ma ha anche giocato un ruolo cruciale nella creazione di una “memoria collettiva”.

Dunbar ha avanzato l’idea che l’evoluzione del linguaggio, proprio grazie alla narrazione, abbia consentito agli Homo sapiens di gestire una rete sociale complessa, aumentando così le possibilità di sopravvivenza attraverso una migliore cooperazione e risoluzione dei conflitti. Le storie, come spiegato da Dunbar, non sono solo narrazioni di eventi, ma sono vettori di legami emotivi e cognitivi, favorendo empatia e solidarietà all’interno dei gruppi sociali. La narrazione è quindi vista come una sorta di “collante” tra gli individui.

La trasmissione di conoscenze e l’evoluzione del cervello umano

Un altro aspetto cruciale della narrazione riguarda il suo ruolo nella trasmissione di conoscenze, che è fondamentale per l’evoluzione culturale. Le storie non solo tramandano esperienze individuali, ma codificano strategie di sopravvivenza, conoscenze ecologiche e comportamentali che vengono adattate e trasformate nel corso del tempo. La capacità di “conservare” nel tempo e nello spazio esperienze passate, storie di successi e fallimenti, crea un corpus di informazioni che può essere utilizzato per affrontare nuove sfide. La neuroscienza ha mostrato che il nostro cervello è particolarmente incline a comprendere e immagazzinare storie, perché queste rispecchiano la nostra evoluzione cognitiva: l’abilità di comprendere eventi attraverso una sequenza logica, di percepire cause ed effetti, ci ha permesso di progettare strategie più efficaci per affrontare l’ambiente.

Secondo Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia e psicologo cognitivo, la narrazione è una delle modalità in cui il cervello umano organizza le informazioni. Il nostro cervello tende a interpretare eventi attraverso una “struttura narrativa” che conferisce senso a ciò che accade, facilitando l’apprendimento. La narrazione, in questo senso, non è solo una forma di comunicazione, ma un meccanismo che facilita la comprensione e l’assimilazione della realtà. In questo contesto, la narrazione diventa uno strumento che aiuta le generazioni successive a navigare il mondo in modo più efficiente, grazie a una trasmissione di conoscenze che si articola attraverso storie anziché solo informazioni astratte o tecniche.

La psicologia evolutiva e la narrazione

La psicologia evolutiva suggerisce che la narrazione possa anche essere una chiave per comprendere la nostra evoluzione come specie. Secondo Jerome Bruner, psicologo cognitivo e uno dei maggiori teorici della narrazione, la nostra capacità di costruire e comprendere storie è essenziale per la nostra identità individuale e collettiva. Bruner suggerisce che la narrazione non sia solo uno strumento di comunicazione, ma anche una forma fondamentale di pensiero. La nostra psiche, infatti, si organizza attorno alla narrazione: costruire storie ci permette di dare significato alla nostra esistenza, di comprendere il nostro posto nel mondo e di sviluppare una coscienza storica. Le storie permettono agli individui di negoziare il loro ruolo all’interno della società e di esplorare, attraverso la finzione o la storia personale, le proprie emozioni, valori e desideri.

Inoltre, la narrazione ha giocato un ruolo chiave nello sviluppo delle emozioni sociali complesse, come l’empatia e il senso di giustizia. Le storie non solo trasmettono fatti, ma creano anche esperienze emotive condivise che permettono agli individui di mettersi nei panni degli altri, di comprendere le loro sofferenze, gioie e motivazioni. Questo è stato un fattore cruciale nello sviluppo delle capacità sociali dell’Homo sapiens e nella creazione di norme morali e culturali che hanno permesso la cooperazione in gruppi sempre più complessi.

Le storie e la costruzione delle identità culturali

Le storie, soprattutto nella forma di miti, leggende e religioni, sono state uno dei principali strumenti con cui le comunità umane hanno costruito la loro identità culturale. In molte culture preistoriche, le narrazioni collettive servivano non solo a spiegare l’origine del mondo o a dare forma a valori morali, ma anche a fornire una coesione sociale che trascendeva l’individuo. David Christian, storico delle religioni e teorico dell’evoluzione della storia, ha parlato di “storia universale” come un modo per comprendere come le storie collettive abbiano influito sullo sviluppo delle civiltà. La narrazione di miti e leggende permette di consolidare valori comuni e di rafforzare l’identità di un gruppo, favorendo la cooperazione anche in gruppi vasti e complessi.

Le storie sono anche strumenti di resistenza culturale e politica. Popoli e comunità che hanno vissuto momenti di colonizzazione o oppressione hanno spesso fatto uso della narrazione per preservare la propria lingua, le proprie tradizioni e la propria identità. In questo senso, la narrazione diventa non solo un veicolo di coesione sociale, ma anche uno strumento di resistenza culturale.

Savin: la concordanza di pietra e vita.

Sola nel mondo eterna, a cui si volve

 Ogni creata cosa, 

in te, morte, si posa

 nostra ignuda natura,

 lieta no, ma sicura 

dell’antico dolor […] 

G. Leopardi Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie 

Quando Giacomo Leopardi ragiona sull’essere nulla del tutto, lo fa sbirciando al di fuori del nulla da cui ogni cosa proviene e verso cui ogni cosa ritorna. In questo mare di nulla, in tale pulviscolo di protoni, neutroni, elettroni, gluoni, alcune cose si creano casualmente, per ergersi sul nulla un periodo e disgregarsi nel nulla nuovamente. 

Ma esistono veramente le cose? La moderna fisica quantistica ci viene in aiuto, facendoci immaginare quanto possa essere desueta la staticità delle cose, in relazione alla ineluttabile ubiquità della non permanenza. 

Il mondo è composto da una serie di eventi, non da cose, . Un granito di Donato Savin è, esso stesso, un evento: un sasso perciò non è una cosa bensì un evento: prima nulla, poi polvere di stella, poi magma, poi fondale oceanico, poi montagna, poi collina, quindi masso, poi sasso, poi ciottolo, quindi grano di sabbia e poi, di nuovo, nulla. Se ci fosse possibile ridurre le nostre umane dimensioni alla scala atomica, una possente stele di Savin ci parrebbe allora, come un’indefinibile nebbia di caos. 

Ciò che i nostri occhi possono percepire, non è altro che una sfocatura della realtà. Ecco allora che il gesto artistico dello scultore, ci viene in aiuto, come il bastone del poeta che, conficcato nella solidità del mondo, ne incrina l’essenza stessa, facendoci sbirciare al di là dell’effimera immanenza della nostra realtà. 

Caos e Logos dunque, in questa eterna dicotomia universale, che mantiene in equilibrio ogni esistenza, sia essa intelligente o no, si muove il grimaldello dello scultore. Il gesto di Donato Savin muta la realtà statica, immobile, pesante del sasso, trasformando il significato dell’oggetto e palesandoci la sua prima qualità di evento. 

Sacerdote di un panteismo artistico che, visibilmente, fa di Dio il tutto naturale, lo scultore trasporta, attraverso la roccia, l’osservatore attonito, aiutandolo a intuire ciò che si cela oltre l’ostacolo: l’inganno della percezione sensoriale del mondo. 

Nell’istante in cui le forze universali, casualmente, interagiscono nel modificare un evento che avrebbe potuto essere immutabile, nel suo naturale decadimento, ecco che la realtà prende una nuova direzione; una direzione effimera, è vero, seppure esistente; una direzione che il gesto artistico umanizza. In questo umanizzarsi di un evento risiede la meraviglia della cultura umana, la meraviglia di una specie fragile, caratterizzata dall’ipertrofia dei lobi frontali del cervello. 

Ancora è l’arte quindi, non la scienza, come invece volevano Nietzsche e il suo oltre-uomo, ad umanizzare la realtà; a renderla non già comprensibile ma accettabile, trasformando il disegno immutabile del Dio spinoziano in un granello di identità riconoscibile all’occhio umano ed ai suoi giganteschi limiti. 

È infatti, come ebbe a sostenere chiaramente Schopenhauer, l’arte ad aiutare l’uomo a trascendere la propria condizione e non la conoscenza, foriera troppo spesso di volontà egoistiche autoreferenziali.

La scultura di Donato Savin è quindi segno allegorico che nasconde e rivela la propria finezza nella durezza della pietra. Le stele, intrise di licheni variopinti, si ergono dai loro piedistalli come menir, non di una civiltà perduta bensì di un tempo inesistente, il tempo degli dei e dei poeti, il tempo della concordanza totale tra uomo e natura, tra pietra e vita, quel tempo che va sotto il nome di Saturnia Regna, l’età d’oro della condizione umana in cui “vitto il bosco,/nidi l’intima rupe, onda ministra/l’irrigua valle” all’uomo,per utilizzare, nuovamente, le esemplari parole del Leopardi, nel suo Inno ai patriarchi

Fermarsi di fronte ad una stele di Savin significa assaporare la reminiscenza di questo tempo fuori del tempo, significa ritrovarsi davanti ad una parvenza di eternità, umanizzata nella statica roccia del fiume che scorre, della montagna che siede immota ed immobile. 

Se è vero, come aveva da scrivere il De Sanctis sopra ad un grande poeta, che “ l’uomo si forma a strati come la terra “ ecco allora che il paragone tra la roccia granitica e l’essenza umana non pare più così inusuale e distante dalle nostre effimere realtà di vita.

Le pietre di Savin sono silenziose ma mai mute; è dal silenzio infatti che sempre procede la parola, il Pensiero. Dal pensiero che tali opere impongono, all’osservatore, è lecito sprofondare in un ricco silenzio interiore, che indaghi e tenda a dischiudere la relazione che ogni essere pensante intrattiene , giocoforza, con la Natura.

La perseveranza dell’artista intride, delle semplici rocce, di umanità; perseveranza che è manifestazione della costanza, della tenacia naturali: gutta cavat lapidem non vi sed sæpe cadendo. Come la goccia dell’adagio lucreziano, anche Savin prende il tempo necessario a realizzare la propria opera.

Una tensione sublime pervade la mano dello scultore nell’atto di modificare, senza mai stravolgere, l’essenza della natura stessa, per mezzo di quella scintilla divina ch’è insita nell’uomo e che prende il nome di intelligenza. L’intelligenza però non è sufficiente a trovare la grazia nascosta nell’inanimato, nel grezzo, nel naturale, vi è un’ulteriore necessità, una necessità di concordanza: una sorta di stimmung spitzeriana in grado “ di assorbire tutta la gloriosa pienezza di            armonia “ rilevata e rivelata nel mondo. Parlo di una symphonìa edi un’armonìa pitagoriche che rispecchino la comunanza tanto del grande afflato dell’universo quanto della perfetta imperfezione della società umana.

Non sono generali queste figure svelte e longilinee, immobili, statiche eppure così eteree, leggiadre; non sono generali, dicevo, ma danzatrici inconsapevoli, donne sinuose, donne di montagna che è femmina per evidenti ragioni di bellezza.

La natura, se interrogata, non risponde all’uomo ma esiste pure la possibilità che sia l’uomo ad essere sordo alle parole della natura; Savin interpreta con il suo segno distintivo, proprio una parte del linguaggio della natura, la parte profonda che non riguarda il macrocosmo ma che è voce sincera del particolare, dello speciale. Ascolta la pietra, Savin, e da essa si lascia condurre alla scoperta di un universo che cerca la sua realizzazione nello stupore; lo scultore non toglie ciò che vi è di troppo, nel blocco granitico, per estrarne una rappresentazione plausibile agli occhi dell’uomo; il suo è piuttosto un lavoro costante di ricerca, in comunione con la natura stessa: liscia, leviga, incide, buca dove e solo dove la natura lo veicola a farlo. Potremmo così dire che Savin non scolpisca per gli uomini ma per la natura stessa, tale un ambasciatore che riferisca un messaggio, immediatamente incomprensibile, ma ben chiaro e visibile a lavoro ultimato.

Queste stele andrebbero abbracciate per poter essere godute a pieno, andrebbero abbracciate come si abbraccia un amore, come si abbraccia una fede ma pure come si possa abbracciare un albero, come si possa stringere con delicata fermezza un soffice bocciolo di rosa. È proprio nell’abbraccio infatti che l’uomo può ritrovare quella sensazione di unicità e di comunione con il tutto, che la società odierna spesso ci descrive come inutile perdita di tempo, nella sfrenata corsa al guadagno ed alla spesa.

Francesco Corniolo

Di nuovo?

Di nuovo? Ma davvero? Ma davvero davvero? Pare che il presidente Lavevaz non se la senta di fare la Foire anche quest’anno. Troppi contagi, dice. E allora caro presidente ( badi che la p è minuscola per scelta ) mi chiedo ma perché ci siamo vaccinati? Perché avete speso soldi pubblici in una campagna di informazione vaccinale ( orrenda per altro ) se poi i vaccini non servono a nulla? Così la diamo vinta a quegli imbecilli di no vax che, da sparuta minoranza che sono, assurgono a demiurghi della società. Perché se non facciamo la Foire è per proteggere loro, bestie grame che non meritano certo la nostra compassione. Il suo compito è proteggere i suoi concittadini, me ne rendo conto, ma le persone che volontariamente non si vaccinano sono un po’ come gli scialpinisti che vanno in escursione con allerta 5 per le valanghe: ne lei, ne io ne il SSN possiamo proteggerle, sono nelle mani del fato, la parca è pronta a tagliare il loro filo in qualsiasi istante.

Trovi il coraggio di infischiarsene dei pareri che probabilmente l’avranno condizionata e faccia svolgere la Foire de saint Ours, è un suo DOVERE di presidente della regione autonoma Valle d’Aosta far sì che le tradizioni non perdano vigore, che la stupidità di pochi non riesca a spazzarle via con un colpo di spugna.

E a voi che continuate ad aver paura, a presupporre complotti, a pensare alla libertà, a gridare alla dittatura dico: avete rotto il CAZZO! Vi ricordo che a scuola, quando per colpa di pochi tutti rischiavano la gita, quei pochi non se la passavano certo bene…

Discriminare indiscriminatamente

Eccoci al dunque, il punto cruciale del ragionamento sulla discriminazione: siamo tutti discriminati e discriminatori. È così ed è discriminante per tutti noi che crediamo non essere discriminati il fatto che si debbano forzatamente creare categorie discriminatorie. La discriminazione emerge dall’animo umano naturalmente, è causata da preconcetti e pregiudizi che formano indissolubilmente il nostro carattere e fondano ciò che siamo nel profondo. Pensare di non essere mai discriminati o di non discriminare mai è pura follia. Discriminiamo e siamo discriminati indiscriminatamente, ogni giorno, da persone che non conosciamo o che invece crediamo amiche, dai nostri genitori, dai nostri insegnanti, dai nonni e dai commessi e queste stesse categorie ( e infinite altre ) noi discriminiamo.

Se pensiamo alla sua etimologia discriminare deriva da discernere verbo che nelle nostre menti non ha certo velleità mostruose anzi da esso prende abbrivio una capacità fondamentale della mente saggia ossia la capacità di discernimento, una mente che discerne riesce a separare i vari pacchetti di informazioni che riceve per arrivare ad una verità verificabile. Discriminare significa quindi dividere per agglomerarsi in stati diversi, come gli atomi stessi che formano molecole solo con certi tipi di atomi e non con altri e questi altri, discriminati, troveranno anch’essi i loro legami da stringere, senza prendersela troppo. Sempre aborrendo, per quanto riguarda noi specie sapiens, la violenza ( fisica e psicologica ), il ricatto, l’omicidio, che sono sempre e comunque perseguiti penalmente.

Si possono pagare certi debiti?

La domanda è: si possono pagare certi debiti contratti con la società? Che tipo di debito si contrae uccidendo un magistrato antimafia e la sua scorta, polverizzando decine di metri di strada? A quanto ammonta l’ammenda per l’omicidio di un ragazzo poi sciolto nell’acido? Come si pagano “ Molti più di cento ( omicidi ), di sicuro meno di duecento “?

Esistono paesi in cui il fine pena mai non esiste, altri che arrivano ad eliminare fisicamente i giudicati colpevoli di certi reati. Fu lo stesso giudice Falcone a voler forti sconti di pena per i collaboratori di giustizia, voleva certamente utilizzarli come un grimaldello per far cadere la cappa omertosa che ha sempre circondate le mafie italiane.

Venticinque o trent’anni, se visti dall’oggi, sono un tempo molto lungo ma il fattore primario del tempo percepito è quello di passare; così ci si ritrova con un sessantaquattrenne, detto lo scannacristiani, pronto a tornare alla vita libera.

La politica si costerna, s’indigna, come suo solito, dimenticando che la facoltà di modificare le leggi fa parte del suo lavoro.

Se si toglie una vita, con scienza e coscienza, con efferatezza e piacere, con schema e guadagno, il pegno nei confronti della società è impagabile.

Non è civiltà liberare gli scannacristiani, che siano essi ravveduti e pentiti oppure no. Non è solo una questione morale, è pure una questione di sicurezza. Gli uomini rabbiosi che inseguono caos, potere e guadagno vanno tenuti ai ferri, per sempre.

Ciò detto, dura lex sed lex, la politica odierna è troppo spesso propensa a seguire il sentimento popolare piuttosto che la norma ed è la norma che scarcera il delinquente, è quindi questa che necessita di un ammodernamento. In trent’anni il tessuto sociale si modifica, evolve e con esso dovrebbero evolvere le leggi che regolano lo stato.

Risulta inutile indignarsi col senno di poi quando si avevano in mano strumenti e mezzi per evitare il disastro.

È la tradizione a forgiare i popoli

Chi è stato bambino se la ricorda quella sensazione, quell’attesa stressante, ricca di aspettative e sogni, quella voglia di futuro così ben descritta dal Leopardi ne Il sabato del villaggio: l’attesa del Natale, del giorno della festa. Ecco, chi è nato e cresciuto in Valle d’Aosta, chi da essa si è lasciato adottare inglobandone nel proprio sé crismi e sacrifici, questa spasmodica attesa la riversa sui giorni della Fiera di Sant’Orso. Oggi, trenta gennaio duemilaventuno, questa attesa è stata disattesa.  Nessun lieto romore quest’anno per le vie del borgo, nelle piazze, sotto i capannoni e dentro alle taverne; solo la deliziosa ma fredda presenza del legno scavato sapientemente che, privato del suo autore, si ridimensiona a semplice oggetto di ammirazione, dietro ad un vetro, irraggiungibile, inesplicabile.

La pandemia che ancora sferza  le nostre vite, i nostri animi, le nostre abitudini, come uragano di incertezze e angosce, ha segnato un nuovo punto a suo favore. Non le è bastato averci inflitto il dolore della perdita dei nostri cari, la rinuncia alle libertà più banali, l’averci inculcato il timore della vicinanza, il disappunto della stretta di mano, la paura dell’abbraccio; la pandemia, in ultimo, si è presa anche la tradizione.

Mi risulta davvero difficile esprimere ciò che in me sento oggi: una sensazione di sconfitta bruciante, la vista dell’abisso vorace che ci si spalanca davanti allorché tutto un popolo perde; perché oggi il popolo valdostano è stato battuto, ha perduto la guerra al virus. Non siamo stati capaci di aguzzare l’ingegno e trovare una scappatoia, se non quella della gelida virtualità, per prenderci una grande rivincita sull’angoscia dettata, da un anno, dalla pandemia.

La nostra Autonomia, calpestata, vituperata, sfrondata, da più di un decennio, è valsa, come ormai spesso le accade, meno di nulla. E dire che, in questo triste frammento temporale che ci tocca vivere, avremmo potuto recuperare la vera essenza della millenaria, avremmo potuto riportare a noi stessi una tradizione che, con gli anni, è andata scivolandoci tra le dita, come sabbia precipitante nel turbinio del commercio. Una occasione persa per rialzare la testa e cacciare un grido di esistenza e di rivincita.

Governare non significa rappezzare la barca già colpita dall’onda, governare significa indirizzare la pruda della nave verso l’onda, per bucarla, senza che questa ci colga impreparati; chi doveva farlo non ne è stato capace, a tutti i livelli.

Mi rendo conto di poter sembrare oltremodo catastrofico e catastrofista ma è la tradizione a forgiare il senso di appartenenza e la stabilità dei popoli, se siamo disposti a rinunciare ad essa, abbassando le mani, a quant’altro saremo disposti a rinunciare in futuro, senza battere ciglio?

Cos’ho capito del vaccino Sars-Cov 2

The bastard

Per quanto la mia intermittente intelligenza mi abbia concesso di comprendere riguardo al vaccino contro Sars-cov 2 mi sono fatto persuaso che, senza ombra di dubbio, non contenga una qualche magica pozione per il controllo della mente, delle scelte personali e del libero arbitrio di ognuno di noi. Di tutto ciò si occupa infatti lo smartphone che portiamo in tasca quotidianamente.

Ho capito che questo nuovo vaccino non è il solito vaccino a cui tutti, solitamente, siamo abituati e che gli addetti ai lavori chiamano a virus attenuato, non ci inietteranno quindi un virus meno virulento perciò tranquilli, non si andrà in ambulatorio a prendere il COVID.

Questo vaccino è un vaccino a mRNA ossia, sempre per quanto possa aver capito la mia testina, un vaccino che va ad agire su una componente del virus, una proteina chiamata S o Spike, che funziona, un po’ come un grimaldello o una chiave bulgara, sulle nostre pareti cellulari, consentendo al virus di penetrare nei nuclei cellulari e qui riprodursi indisturbato.

Vaccinarsi quindi sarebbe un po’ come montare una porta blindata a casa, aggiungendovi pure un allarme: la porta blindata sarà molto più resistente al grimaldello e in più, grazie all’allarme ( che realmente è la conoscenza pregressa, da parte delle nostre cellule, della proteina Spike ) saremo in grado di allertare le forze dell’ordine del nostro organismo, il sistema immunitario, per poter scongiurare la penetrazione di questo indesiderato ospite in noi.

Credo inoltre di aver capito che il progetto, per questo tipo di vaccino contro Coronavirus, non sia proprio di prima mano, come molti credono. Il principio è il medesimo già applicato per gli studi dei vaccini per SARS e MERS, altri due Coronavirus che già si erano presentati qualche anno fa e avevano fatto tremare l’umanità con lo spettro di una, scongiurata, pandemia; aggiungerei per fortuna, visto che i suddetti virus erano molto più aggressivi del Sars-cov 2.

Sono quindi anni che i ricercatori stanno mettendo a punto quest’arma per la lotta al COVID, concentrando la loro attenzione su dei virus della stessa famiglia. Non si tratta quindi di un lavoro raffazzonato alla bell’e meglio, per fornire una risposta pronta alle preoccupate popolazioni del globo terraqueo.

L’EMA, l’agenzia europea del farmaco, sta inoltre valutando accuratamente ogni vaccino che le varie case farmaceutiche hanno prodotto, tant’è vero che solo due vaccini, in Europa, sino ad ora sono stati approvati: quello Pfizer e quello Moderna; per gli altri l’agenzia ha richiesto ulteriori informazioni e potrebbero essere approvati in un futuro prossimo.

Aggiungo che il danno di immagine per tutta quanta la scienza mondiale risulterebbe gravissimo se qualcosa andasse storto dopo la somministrazione del vaccino, ci sarebbe una completa perdita di fiducia, da parte della popolazione, nella scienza medica che avrebbe bisogno di decenni per recuperare il proprio primato.

Per tutte queste ragioni mi sento tranquillo e mi vaccinerò, non appena sarà possibile farlo e qui si aprirebbe un lungo discorso sulla logistica e la politica che oggi non intendo affrontare.

VACCINATEVI!